Il figlio era nekròs, morto. Il suffisso -rosdà all’aggettivo nèkysil valore di participio passato, e non è una sottolineatura da poco. Significa che il figlio era definitivamente morto, era morto-sepolto. Non esprime un aspetto, una qualità come accade per un aggettivo qualsiasi, ma un’azione, un avvenimento avvenuto e chiuso. Archiviato. Il figlio era già nella tomba, nel regno dei morti. Etimologicamente l’aggettivo richiama l’accadico naqaru, “abbattere, distruggere, essere annientato, eliminato”, da cui nakru, “nemico, ostile”. La morte, cioè, è qualcosa di nemico, di ostile a Dio e alla Vita. Morte e nemico sono la stessa cosa. Il figlio più giovane del padre era morto perché era diventato nemico della vita e dell’amore. La vita del figlio, dell’uomo, dipende esclusivamente dal rapporto che ha con il Padre. Quando l’uomo rinnega il Padre celeste, diventa nemico della vita, di se stesso, degli altri. Quando l’uomo diventa nemico di Dio, entra in necrosi, entra nella morte. Ritornare al Padre, come fa il giovane figlio, più che un atto di conversione è un atto di reale e prodigiosa risurrezione. Il figlio che torna tra le braccia del Padre non si è nemmeno accorto dello stato di necrosi in cui era caduto, solo il Padre lo sa. Tornare a Dio non è un atto di pietà devozionale ma è una vera e propria risurrezione totale, che accade in ogni fibra spirituale del nostro essere e coinvolge completamente ogni cellula e molecola del nostro corpo e della nostra mente.