Nel comporre la sceneggiatura di questo episodio l’autore evangelico, per meglio guardare dentro i fatti, si fa guidare dal numero sette e, al tempo stesso, per meglio guidare alla visione di Gesù, conduce il lettore attraverso il ritmo simbolico del numero sette. Sette sono le scene della narrazione e sette sono i dialoghi contenuti, quasi tutti finalizzati a mettere sotto accusa Gesù.
Versetti 1-7, è raccontata la guarigione del cieco nato e vi è il dialogo di Gesù con i suoi discepoli; versetti 8-12, si apre il processo ed è presentato il dialogo dei vicini; versetti 13-17, il cieco guarito viene interrogato per la prima volta; versetti 18-23, vengono interrogati i genitori del cieco nato; versetti 24-34, secondo interrogatorio del cieco guarito; versetti 35-38, dialogo tra Gesù e il cieco; versetti 39-41, discorso di Gesù con i farisei. Sette è il numero che racchiude i valori più importanti dell’uomo e dello Spirito, indica non solo la perfezione, ma anche l’oltre, l’infinito di Dio, la pienezza dell’essere e dell’esistere umano e divino. Perdonare settanta volte sette significa all’infinito, sempre, perfettamente, senza misura e senza misurare, completamente oltre, oltre a ogni calcolo.
Sette volte si ripete in questi versetti di vangelo l’espressione “aprire gli occhi” e sette sono i titoli cristologici – cioè nomi o appellativi che si riferiscono a Gesù nei vangeli per spiegare chi è e qual è la sua missione di salvezza – con cui il cieco vede, incontra, guarda a Gesù. In altre occasioni, pur non essendo ciechi e avendo sotto gli occhi i miracoli e le liberazioni di Gesù dal maligno, alcuni presenti riescono a guardare a Gesù come a un demonio e riescono persino ad affermare: È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni. Il cieco è cieco, ma sembra vederci molto chiaro e molto oltre e non solo definisce Gesù nella sua essenza ma anche nella sua missione: rabbì (versetto 2), l’inviato (versetto 7), l’uomo (versetto 11), il profeta (versetto 17), il Cristo (versetto 22), il figlio dell’uomo (versetto 35) e il Signore (versetto 36). Non vedere la realtà, l’evidenza divina, liberante, amorosa, potente, guaritrice di Gesù, questa è la vera cecità, questo è il peccato vero. Il cuore duro, la mente arrogante, la stupidità sovrana, l’ignoranza eccelsa, questi sono gli impedimenti alla visione, alla semplice realistica visione di Gesù: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane. Il sostantivo greco che qui traduce “peccato” è hamartìa, “errore, mancanza, fallo, colpa”, deverbativo di hamartàno, “non colpisco, sbaglio il bersaglio, non raggiungo lo scopo, perdo, erro, mi sbaglio, mi inganno, pecco”. Letteralmente hamartàno significa quindi “non cogliere nel segno”, tanto che in accadico amaru indica “mirare, cogliere un risultato” e amertu, “mira, controllo”. Nelle lingue semitiche le parole da cui hamartàno deriva significano perdere la lungimiranza, la capacità di vedere più in là, di vedere abbastanza, in qualche modo essere ciechi dentro. In pratica il vero peccato è non vedere Gesù, non credere a Gesù, non amare Gesù. Per questo il cieco, che appartiene senz’altro come tutti gli uomini alla schiera dei peccatori, in verità non compie il peccato di cecità interiore, che è l’impedimento più grave, il non vedere, il non guardare a Gesù con tutto il cuore, con amore, o almeno con sano e rispettoso realismo.