Talento, in greco tàlanton, indica un’unità di peso greca, formata probabilmente su modelli orientali, più precisamente sumero-babilonesi. Il suo nome deriva dalla radice indoeuropea tal, “portare”: originariamente, infatti, il talento era il carico portato da un uomo sulle spalle. Dal concetto di peso si è passati, nel tempo, a indicare con il termine talento l’oggetto pesato, cioè la moneta, che nell’antichità era usanza pesare. Un talento era una moneta estremamente preziosa ad Atene, e corrispondeva a più di venti chili di argento. Quando il talento sparì come valuta monetaria, il nome rimase a significare, con valore metaforico, le doti, i doni di natura. Ancor più è stato usato per indicare le ricchezze interiori della persona, le sue inclinazioni spirituali e intellettuali, con riferimento all’inclinazione del braccio della bilancia durante la pesa. Inclinazioni e doni spirituali e intellettuali che sono fornite all’uomo secondo la sua capacità, nel senso proprio di capienza, secondo la propria capacità di carico, secondo quanto un uomo può portare sul proprio dorso, sulla schiena. Il testo evangelico esprime questo concetto così: a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Inclinazioni spirituali e intellettuali che, se sviluppate adeguatamente, diventano capacità nel senso di abilità, perizia, maestria; in questo senso il concetto di talento è inscindibilmente legato all’idea di investimento, di impiego, per moltiplicare il valore del talento stesso.
Per vivere la vita su questa terra, Dio ha fornito ogni uomo di talenti secondo le sue capacità. Moltiplicare i talenti ricevuti in dono da Dio è lo scopo della vita, perché alla moltiplicazione dei talenti corrisponde la moltiplicazione della gioia personale e del benessere per tutti. Chi vive la vita senza moltiplicare i propri talenti non godrà mai gioia sulla terra né sarà mai utile a nessuno, tanto meno al benessere di tutti. Moltiplicare i talenti non significa accrescere l’ambizione, cercare di primeggiare, incrementare la propria fama. Moltiplicare i talenti non significa potenziare l’ego ma mettere all’opera, umilmente e con passione, i doni di Dio per vivere la gioia e creare benessere per tutti. Per l’uomo, moltiplicare i talenti secondo i disegni di Dio significa, da una parte, cercare di fare e compiere, per quanto gli è possibile, ciò che ama e desidera, in modo da non usare la pressione del dovere, dell’imposizione per fare ciò che va fatto; dall’altra, significa amare e desiderare, per quanto gli è possibile, quello che fa e compie per non cadere nella tristezza della schiavitù. Nella vita, è decisivo fare ciò che si ama per moltiplicare realmente ed efficacemente i propri talenti, per portare vero benessere all’umanità; ed è indispensabile amare ciò che si fa, per vivere nella gioia e nella pace. Quando un uomo moltiplica e fa fruttare i propri talenti, secondo i desideri e i disegni di Dio, lo si deduce immediatamente perché è felice, vive nella gioia. La gioia è il contrappeso della bilancia della vita rispetto alle azioni e alle scelte dell’uomo. Tanto più le azioni e le scelte di un uomo sono vissute per moltiplicare i talenti personali, per favorire il benessere di tutti, tanto più aumenta il “peso” della gioia e la bilancia della vita è in equilibrio. Quello che l’uomo compie senza gioia sbilancia la vita e spezza ogni equilibrio personale, psichico, affettivo, fisico. La legge dominante dei talenti è questa: fare ciò che si ama porta frutti di benessere per tutti, amare ciò che si fa porta frutti di gioia e felicità nel cuore.
Chi vive la vita per usare i propri talenti unicamente per la propria felicità, per il proprio vantaggio e tornaconto personale, e non per il vero benessere per tutti, non sta moltiplicando realmente i propri talenti secondo il disegno di Dio, ma sta soltanto sfruttando i propri doni e le proprie capacità per se stesso, e seminerà attorno a sé solo infelicità e miseria. Chi invece vive la vita utilizzando i propri talenti per il benessere di tutti, con passione, zelo, impegno e dedizione, ma senza crescere nella gioia e nella pace con ciò che compie, cadrà nelle fauci dell’intransigenza e del fanatismo. Quando un uomo non trova gioia in quello che compie e vive, prima o poi si lascerà guidare e gestire dapprima dall’ambizione, poi dal dovere, dai sensi di colpa, di seguito dall’imposizione e dalla sfida, fino a cadere in mano alla schiavitù del fanatismo. La gioia è la moneta sonante dello spirito e dell’intelletto, essa indica come procede personalmente e socialmente la moltiplicazione dei talenti secondo i disegni di Dio.
Due atteggiamenti spirituali e intellettuali possono bloccare drasticamente la moltiplicazione dei talenti nella vita di un uomo: la malvagità e la pigrizia. La malvagità è l’atteggiamento spirituale e intellettuale di chi pensa male di Dio, giudica Dio un essere capriccioso, lunatico, duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. La pigrizia è l’atteggiamento spirituale e intellettuale di chi, per paura di sbagliare, per paura del giudizio altrui, per paura della fatica e del rischio, non si mette in gioco nella vita con i suoi talenti e le sue capacità e preferisce nascondersi sotto la terra dell’assistenzialismo, dell’inedia, dell’apatia. Quando malvagità e pigrizia si incontrano in un uomo, la situazione di quell’uomo è la più triste e avvilente che possa mai capitare sotto il sole, ed è allora che la vita, muovendo le sue energie cosmiche, è pronta a portare via a quell’uomo anche quel poco che ha, perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.